PIRANDELLO

Luigi Pirandello nacque ad Agrigento nel 1867 da una famiglia nella quale era viva la tradizione patriottica e garibaldina e che si era costituita, soprattutto per merito del nonno paterno, una fortuna con l'estrazione e il commercio dello zolfo, visse una giovinezza agiata. Dopo gli studi liceali a Palermo, si iscrisse alla facoltà di lettere di Roma, ma, insoddisfatto dell'insegnamento che vi si impartiva, si trasferì a Bonn, dove si laureò nel 1891 in glottologia. In Germania, assecondando una passione rivelatasi precocemente, compose poesie (il poemetto Pasqua di Gea, 1891), e altre ne scrisse e pubblicò quando rientrò in Italia (il poemetto Pier Gudrò, 1894; Elegie renane, 1895; Zampogna, 1901;); ma progressivamente la poesia divenne un fatto marginale, sentendosi egli attratto prepotentemente dalla vocazione di prosatore, come narratore e come saggista, e dall'amore per il teatro. Nel 1894 aveva sposato la figlia di un socio del padre, Antonietta Portulano, e il matrimonio, allietato dalla nascita di tre figli, fu poi sconvolto dal dissesto finanziario della ditta paterna e, più gravemente, dalla malattia mentale della moglie. Per provvedere ai bisogni della famiglia, lo scrittore assunse l'insegnamento della stilistica nel magistero femminile di Roma, nel quale insegnò prima come incaricato e poi come ordinario dal 1897 al 1922, senza entusiasmo, ma non senza impegno, se frutto dell'insegnamento furono, tra l'altro, gli scritti raccolti in Arte e scienza e il saggio "l'Umorismo" che, resta importante in quanto contiene alcuni fondamenti della poetica pirandelliana. L'interesse più vero non andava però alla teoria bensì all'attività creativa. Fu infatti nei romanzi e nelle novelle che egli venne operando la dissoluzione dei modi tipici del verismo, che, ancora evidenti nel romanzo L'esclusa (1901) e nelle prime raccolte di novelle (Amori senza amore, 1894) lasciano poi solo pallide tracce nei romanzi successivi (Il fu Mattia Pascal, 1904; I vecchi e i giovani, 1909; Quaderni di Serafino Gubbio operatore, 1915; Uno, nessuno, centomila, 1926) e nelle novelle della maturità (La vita nuda, 1911; La trappola, 1915; La giara 1917; Berecche e la guerra, 1919). Al teatro cominciò a dedicarsi per un'occasione esterna, quando nel 1910 Nino Martoglio ottenne di rappresentare un suo atto unico del 1898, La morsa(originariamente intitolato Epilogo) e la riduzione in atto unico, espressamente richiesta, della novella Lumìe di Sicilia. Altri esperimenti teatrali furono tentati negli anni successivi, senza vera convinzione, fino a quanto nel 1916 e 1917, cedendo alle richieste di Angelo Musco, scrisse Pensaci, Giacomino!, Liolà, Il berretto a sonagli e La giara; dello stesso 1917 è anche Cosi è (se vi pare). Fu quello il momento determinante che lo volse all'attività teatrale con impegno sempre crescente. Per questo impegno si distrasse in parte anche dalla narrativa, tanto che non condusse in porto il proposito di completare la raccolta delle novelle sino al numero di 365, sì che meritassero davvero il loro titolo, Novelle per un anno. Nel 1925 lasciò l'insegnamento e assunse la direzione del Teatro d'arte di Rom; si può dire che persino i grandi riconoscimenti ufficiali che gli vennero in seguito (nomina ad accademico d'Italia nel 1929, premio Nobel nel 1934), se non ufficialmente, andarono implicitamente soprattutto al drammaturgo. Chi ha fatto consistere l'originalità del teatro pirandelliano, non meno che nella passione dialettica dei suoi personaggi, nelle sue novità tecniche, ha visto segnare una svolta decisiva dai Sei personaggi in cerca d'autore (1921), e se sarebbe ingiusto considerare come appartenenti a una fase sperimentale, oltre i drammi sopra menzionati, opere quali Il piacere dell'onestà (1917), Il giuoco delle parti, La patente (1918), Come prima, meglio di prima (1920), è altrettanto vero che la stagione della maturità del drammaturgo è quella alla quale appartengono Enrico IV, L'imbecille e Vestire gli ignudi (tutti del 1922), l'amica delle mogli (1927), Lazzaro (1929). È in questi drammi che, sia prendendo spunto da situazioni tipiche del teatro borghese sia rappresentando casi sconcertanti per la loro eccezionalità, non mai riassumibili senza il pericolo di darne un'interpretazione banale, lo scrittore ha scavato al fondo di quella verità che egli cercava di riconoscere al di là dello schermo ingannevole delle convenzioni e delle troppo facili fedi. E qui si rivela la sua moralità, che consiste nel ritrovare valori fondati sulla ragione e sugli impulsi dell'amore e della comprensione. Nella ricerca di questi valori, e non in una riforma esclusivamente tecnica, alla quale peraltro egli si applicò anche come regista con grande tenacia, si trova la spiegazione delle ultime prove del suo teatro: quel tendere verso modi di un originale simbolismo che, annunziati in opere quali La nuova colonia (1928), ancora lo trovarono impegnato nel dramma che la morte non gli consentì di portare a termine: I giganti della montagna. Alle origini non solo del teatro ma di tutta l'opera letteraria di Pirandello sta la sconfitta di una generazione, l'esperienza storica della piccola borghesia, soprattutto meridionale, che aveva visto delusi dal nuovo Stato italiano autoritario e burocratico i propri ideali di libertà e giustizia. I motivi di un Mezzogiorno "tradito", di una precisa società storica cristallizzata e soffocante sono talora espliciti; ma solo tendendo a un discorso più generale, che incrimina insieme la natura e gli istituti, lo scrittore siciliano è stato l'interprete di una crisi esistenziale, non mai accettata con morboso compiacimento. Polemico verso l'idealismo ottomistico, il vitalismo e il dannunzianesimo, lo spiritualismo consolatorio e il pessimismo meramente sentimentale, Pirandello ha una posizione ben sua nel clima del decadentismo irrazionalistico. Le ragioni ideali della sua polemica sono esplicite, ma non riducibili a filosofemi; e quello per cui la sua opera ancora s'impone è il concreto interesse per dei drammi umani e il bisogno di scoprire una verità di natura né mistica né retorica al di là delle apparenze e dei sofismi. Questo spiega la fortuna di Pirandello nella letteratura del Novecento. Forse un lettore italiano, specialmente un lettore di educazione umanistica, si risente di quanto d'approssimativo e di grezzo c'è nel suo linguaggio, che di rado sa essere tanto duttile da rendere con piena aderenza i sentimenti e i pensieri. Ma anche questo, a ben considerare, è il segno della frattura operata dallo scrittore in una tradizione, quale è quella italiana, viziata da un amore esagerato della bella forma. Del resto questi difetti nel linguaggio teatrale sono meno avvertibili, e vengono posti in ombra dalla travolgente forza del messaggio umano che Pirandello ha saputo trasmettere. La sua influenza su tutto il teatro moderno fino al cosiddetto teatro dell'assurdo è innegabile, anche se bisogna riconoscere che spesso delle sue verità è stato colto più l'esterno che l'intimo: le forme esasperate della sua dialettica piuttosto che le ragioni profonde della sua visione del reale.

La prima produzione pirandelliana subì influssi veristi. È il caso di uno dei suoi primi romanzi: l'Esclusa, di ambientazione siciliana, caratterizzato dalla tecnica verghiana dell'utilizzo del discorso indiretto libero.Il modo pirandelliano di descrivere la Sicilia, comunque, si discosta dalla tradizione verista. Questa terra infatti non compare tanto come paesaggio ma come luogo in cui gli esseri umani sono percorsi da istinti e passioni che spesso sfociano in atteggiamenti ossessivi. È il caso dell' "Esclusa" , nel qual romanro la protagonista, sospettata di adulterio e ritenuta colpevole dalla società è costretta a trasferirsi in un'altra città nella quale in contra l'uomo di cui era stata accusata di essere l'amante; ha una relazione con lui e rimane incinta. A questo punto il marito, riconoscendo il proprio torto, la rivuole con sé, anche sapendo che ora la moglie l'ha veramente tradito. La concezione della vita in Pirandello fu alquanto pessimistica. Egli prese a fondamento del suo pensiero l'antico concetto di Eraclito "Panta Rei". Come tutte le cose anche l'uomo muta in continuazione, come un burattino che ad ogni rappresentazione muta maschera. L'uomo però deve adeguarsi ad una legge imposta dalla società, egli si costruisce quindi una maschera. Siccome il personaggio non ha nessuna possibilità di mutare la propria maschera si verifica la disintegrazione fisica e spirituale dei personaggi che si può riassumere in tre punti essenziali che sono la teoria della triplicità esistenziale:

1) come il personaggio vede se stesso;

2) come il personaggio è visto dagli altri;

3) come il personaggio crede di essere visto dagli altri.

Le conseguenze della triplicità sono tre:

1) il personaggio è uno quando viene messa in evidenza la realtà-forma che lui si dà;

2) è centomila quando viene messa in evidenza la realtà-forma che gli altri gli danno;

3) è nessuno quando si accorge che ciò che lui pensa e ciò che gli altri pensano non è la stessa cosa, quando la propria realtà-forma non è valida sia per sé che per gli altri, ma assume una dimensione per sé e un'altra per ciascuno degli altri.

"UNO-CENTOMILA-NESSUNO" sono le tre dimensioni dell'essere e della realtà del personaggio, nelle quali possiamo trovare l'origine dell'alienazione e della forma:

abbiamo l'alienazione quando la dimensione UNO lascia il posto alla dimensione NESSUNO, e il personaggio si rende conto di dover vivere non per come si crede di essere ma per come gli altri credono che lui sia;

abbiamo la forma quando la dimensione UNO si concretizza in una delle CENTOMILA dimensioni che gli altri danno al personaggio.

La molteplicità delle condizioni esistenziali si presenta al personaggio come una drammatica scoperta, nella quale tutto diventa inutile, perché il personaggio non è più UNO, ma tanti quanti sono quelli che lo vedono, addirittura tanti quanti sono gli stati d'animo di coloro che lo vedono, lo conoscono o credono di conoscerlo; ed è anche NESSUNO, perché nessuna di quelle forme che gli altri gli danno corrisponde a quellla che lui si dà. E il dramma diventa ancor più profondo quando ci si rende conto che ciascuna di quelle forme è come un'ombra estranea, e come le ombre provengono dal corpo ma non sono il corpo, così le forme ci fanno vedere il personaggio ma non sono il personaggio stesso. La forma è la maschera, l'aspetto esteriore che l'individuo-persona assume all'interno dell'organizzazione sociale per propria volontà o perché gli altri così lo vedono e lo giudicano. Essa è determinata dalle convenzioni sociali, dalla ipocrisia, che è alla base dei rapporti umani. L'illusione nella quale vivono i personaggi viene scoperta e messa a nudo attraverso una riflessione che scompone ogni cosa nei suoi aspetti più nascosti. Quando il personaggio scopre di essere riconosciuto attraverso un atto accaduto una sola volta e di essere identificato in esso, come può essere identificato in centomila altri atti diversi ma tutti ugualmente soffocanti, cade in una condizione angosciosa senza fine, perché si rende conto che

- la realtà di un momento è destinata a cambiare nel momento successivo,

- la realtà è un'illusione perché non si identifica in nessuna delle forme che gli altri gli hanno dato.

L' impossibilità di vivere in una forma e al contempo l'impossibilità di sfuggirne, definiscono la dimensione tragica ed allo stesso tempo comica della non esistenza del "Fu Mattia Pascal". La vicenda presenta un uomo, schiacciato da un'opprimente situazione familiare, che, creduto morto mentre invece aveva vinto una grande somma al casinò, decide di crearsi una nuova vita, cambiando il proprio aspetto esteriore, città ed identità. Il senso di liberazione, però, dura poco in quanto egli non riesce a ricostruirsi una vita visto che gli si presentano ovunque ostacoli improvvisi ed insormontabili: viene derubato e non può denunciare il furto, non può possedere un cane perché dovrebbe pagare l'apposita tassa, ama una ragazza e non può sposarla. Non gli resta che ritornare nei suoi panni reali ma anche questo gli risulta impossibile: i suoi familiari, amici e conoscenti hanno già ricostruito una vita in cui non c'è più posto per lui. Con il "Fu Mattia Pascal" Pirandello sconvolge il rapporto tradizionale tra voce narrante e trama, in quanto chi parla in prima persona è il fu Mattia Pascal. Anche la struttura temporale del romanzo è sconvolta in quanto l'opera si apre quando la vicenda si è già conclusa ed il protagonista-narratore guida il lettore nell'intrigata storia fingendo di affidarla ad un manoscritto che dovrà essere letto soltanto 50 anni dopo la sua terza ed ultima morte. Il concetto di forma nelle novelle e nei romanzi e di maschera nella produzione teatrale sono equivalenti. La maschera è la rappresentazione più evidente della condanna dell'individuo a recitare sempre la stessa parte, imposta dall'esterno, sulla base di convenzioni che reggono l'esistenza della massa. Nella società l'unico modo per evitare l'isolamento è il mantenimento della maschera: quando un personaggio cerca di rompere la forma, o quando ha capito il gioco, viene allontanato, rifiutato, non può più trovare posto nella massa in quanto si porrebbe come elemento di disturbo in seno a quel vivere apparentemente rispettabile, in quanto sottomesso alle norme, ma fondamentalmente condannabile, in quanto affossatore dei bisogni basilari dell'uomo. Sia nell'opera teatrale che in quella narrativa, troviamo spesso un elemento tecnico di grande importanza che tende a rompere la forma,che fa esistere il personaggio nell'alienazione, esso è l'accidente , usato soprattutto nella novella, e serve a ristabilire un'equilibrio spirituale nell'organizzazione sociale e statuale. L'elemento dell'accidente è rappresentato da qualsiasi cosa: il fischio d'un treno; un sasso urtato per via, che all'improvviso si trasforma in un mondo pieno di vita e di creatività; la frase di una donna (come nel romanzo Uno nessuno centomila, la rivelazione del naso che pende verso destra fatta a Moscarda dalla moglie Dida). L'accidente serve a portare l'individuo-personaggio alla scoperta dell'originario se stesso e trasforma il personaggio circoscritto nella forma in persona libera che la massa non può più comprendere né accogliere. La forma rappresenta la realtà fissata per sempre, tanto che quando interviene l'accidente che libera il personaggio, tutti pensano che la diversità di comportamento sia dovuta all'improvvisa alienazione mentale del personaggio, a una sua forma di follia che scatena in tutti il riso, perché non è comprensibile da parte della massa. Così accade a Enrico IV, un nobile del primo Novecento fissato per sempre nella rappresentazione del personaggio storico da cui prende il nome, dopo aver battuto la testa per una caduta da cavallo. In Enrico IV troviamo l'esasperazione del conflitto fra apparenza e realtà, fra normalità e a-normalità, fra il personaggio e la massa, fra l'interiorità e l'esteriorità. Per superare questo conflitto il personaggio tende sempre più a chiudersi in se stesso, per cui la a-normalità diventa sistema di vita. Enrico IV è il personaggio più disperato e tragico di Pirandello, e racchiude i temi di una poetica e di una visione della vita che porta all'isolamento e alla disgregazione, alla rottura drammatica e totale non solo con la storia contemporanea e con la cronaca quotidiana, ma anche con la realtà del passato e con l'illusione del futuro. È il personaggio-maschera che personifica la scoperta del grigiore e dell'invecchiamento delle cose e dell'uomo, insieme alla coscienza dell'irrecuperabilità del tempo passato. La guarigione di Enrico IV dalla pazzia, improvvisa e fisicamente inspiegabile, proietta il personaggio nelle vicende quotidiane, ma lo rende anche consapevole di non poter più recuperare i 12 anni vissuti 'fuori di mente', per cui non gli resta che fingersi ancora pazzo dopo aver constatato che nulla era rimasto ormai della sua gioventù, del suo amore, e che molti lo avevano tradito. È in questa consapevolezza che la persona diventa personaggio e prende definitivamente le sembianze di Enrico IV, assumendo una forma immutabile agli occhi di tutti, ma non di se stesso, rifugiandosi nel già vissuto, dove ogni effetto obbediente la sua causa proprio perché, essendo già vissuto, non può più mutare. Importante è in Pirandello il concetto di umorismo. Egli stesso lo spiega con il seguente esempio usato nel Saggio sull'umorismo del 1908:

Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di quale orribile manteca (composizione di olii vari, ndr.), e poi tutta goffamente imbellettata e parata di abiti giovanili. Mi metto a ridere. Avverto che quella vecchia signora è il contrario di ciò che una vecchia rispettabile signora dovrebbe essere. Posso così, a prima giunta e superficialmente, arrestarmi a questa impressione comica. Il comico è appunto un avvertimento del contrario. Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse nessun piacere a pararsi cosi come un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltanto perché pietosamente s'inganna che, parata così, nascondendo così le rughe e la canizie, riesca a trattenere a sé l'amore del marito molto più giovane di lei, ecco che io non posso più riderne come prima, perché appunto la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andar oltre a quel primo avvertimento, o piuttosto, più addentro: da quel primo avvertimento del contrario mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario. ed è tutta qui la differenza tra il comico e l'umoristico.

L'umorismo è, quindi, un processo di rappresentazione della realtà, delle vicende e dei personaggi; durante la concezione e l'esecuzione dell'opera la riflessione non è un elemento secondario, ma assume un ruolo di notevole importanza, perché è solo attraverso di essa che possiamo capire la vicenda che si svolge sotto i nostri occhi. La riflessione è "come un demonietto che smonta il congegno delle immagini, del fantoccio messo su dal sentimento; lo smonta per vedere come è fatto. Essa secondo Pirandello, non si nasconde mai, né potrebbe essere mascherata o eliminata del tutto dalla volontà o dalla coscienza di un personaggio, come potrebbe succedere con un sentimento; non è come lo specchio, davanti al quale l'uomo si rimira, ma si pone davanti a ciascuno come un giudice, analizzando vicende e personaggi, con obiettività e imparzialità, scomponendo l'immagine di tutte le cose, le vicende e i personaggi stesi nelle loro componenti: da questa scomposizione nasce quello che Pirandello chiama avvertimento del contrario. Con l'umorismo nasce una nuova visione della vita, senza che si crei un particolare contrasto tra l'ideale e la realtà, proprio per la particolare attività della riflessione, che "genera il sentimento del contrario, il non saper più da qual parte tenere, la perplessità, lo stato irresoluto della coscienza". Il sentimento del contrario distingue lo scrittore umorista dal comico, dall'ironico, dal satirico, perché assume un atteggiamento diverso di fronte alla realtà:

- nel comico manca la riflessione, per cui il riso, provocato dall'avvertimento del contrario, è genuino, ma sarebbe amaro in presenza della riflessione, perché questa toglierebbe il divertimento e porterebbe alla coscienza del dramma della condizione umana;

- nell'ironico la contraddizione tra momento comico e momento drammatico è soltanto verbale: se fosse effettiva non ci sarebbe più ironia e la 'battuta' perderebbe la sua naturalezza, che è quella di dire l'opposto di quel che si pensa e che si vuol far capire, ma facendo intuire comunque la verità;

- nel satirico con la riflessione "cesserebbe lo sdegno o, comunque, l'avversione della realtà che è ragione di ogni satira"; la satira, infatti, mette in evidenza i difetti degli uomini, cogliendone gli aspetti più negativi e turpi, con l'intento di riportare gli uomini sulla retta via.

Con l'umorismo, e quindi con la riflessione, si entra più profondamente nella realtà. In questa nuova visione della realtà si verifica lo scontro tra l'illusione, che costruisce a suo modo, e la riflessione, che scompone una ad una quelle costruzioni; ma gli effetti sono diversi nei differenti approcci con la realtà.Nell'umorismo, quindi, distingue un aspetto comico che deriva dall'avvertimento del contrario e un aspetto umoristico o drammatico che deriva dal sentimento del contrario; il primo è esterno all'uomo e facilmente visibile, per cui ciascuno è capace di coglierlo; il secondo è invece interno all'uomo, ma non può essere colto se non attraverso la riflessione. È da sottolineare, che mentre tutti possono percepire l'aspetto comico in quanto ognuno può avvertire che una cosa avvenga o che un personaggio si comporti in modo contrario a ciò che tutti ritengono normale, il drammatico-umoristico viene capito e sentito solo da coloro che usano la riflessione, e comunque non dalla massa in quanto questa segue regole generali accettate supinamente e non i singoli individuali bisogni; per Pirandello ciascuno ha un proprio modo di attualizzare la riflessione, perché i bisogni personali sono assolutamente individuali. attraverso la riflessione, giungiamo a cogliere l'aspetto normale o anormale della vita e degli atteggiamenti dei personaggi. Generalmente, intendiamo per normalità, secondo la massa, tutto ciò che viene fatto e pensato in basi a leggi, norme e consuetudini che l'uomo ha creato per regolare la propria. È, quindi, anormale, sempre secondo la massa, tutto ciò che non segue le regole prescritte. Secondo Pirandello, è normale non ciò che risponde alle norme, ma ciò che da ciascuno viene fatto seguendo i propri intimi bisogni, e sono questi bisogni che portano l'uomo sulla via del progresso. Il personaggio tende a ribellarsi quando si rende conto che l'osservanza delle norme gli impedisce di vivere una vita decorosa e di migliorare la propria condizione. L'anormalità per Pirandello, è il seguire ciecamente le norme anche quando queste impediscono all'uomo di vivere, permettendogli solo di esistere. Anche tra realtà e non realtà abbiamo due distinte dimensioni, perché ciascuno vede la realtà secondo le proprie idee e i propri sentimenti, in un modo diverso da quello degli altri: a fronte della realtà esterna che si presenta una e immutabile, abbiamo le centomila realtà interne di ciascun personaggio, per cui la vera realtà è nessuna. I due aspetti sono:

1) la dimensione della realtà oggettuale, che è esterna agli individui e che apparentemente è uguale e valida per tutti, perché presenta per ognuno le stesse caratteristiche fisiche ed è la non-realtà inafferrabile e non riconoscibile: ciò che resta nell'anima dell'individuo è la sua disintegrazione in tante piccole parti quante sono le possibilità concrete dell'individuo di vederla;

2) la dimensione della realtà soggettuale, che è la particolare visione che ne ha il personaggio, dipendente dalle condizioni sia individuali che sociali, ed abbiamo tante dimensioni quanti sono gli individui e quanti sono i momenti della vita dell'individuo.

Per i personaggi pirandelliani non esiste, quindi, una realtà oggettuale, ma una realtà soggettuale, che, a contatto con la realtà degli altri, si disintegra e si disumanizza, come avviene per Moscarda, il protagonista del romanzo Uno nessuno centomila, che scopre all'improvviso di non essere più quello che credeva dal momento in cui la moglie Dida gli dice che ha il naso che pende verso destra: un banale accidente che lo porterà a capire che gli altri lo vedono in un modo diverso da come lui si era sempre visto. Per Pirandello la condizione umana è tutta contratta in un'atroce alternativa: o si è trascinati dagli avvenimenti dell'esistenza, inafferrabile, precipitosa, sorprendente e mutevole, che con moto perpetuo mira a disfare le forme dell'essere e a cancellare dai volti perfino l'impressione lasciata talvolta dal dolore, o si rimane bloccati nel circolo chiuso della propria coscienza, che vincola ciascuno ad un istante del tempo infinito, ad una passione, ad un evento fra i tanti possibili, confinandolo in una solitudine dalla quale è impossibile uscire. Tutta l'esistenza si fonda sul dilemma: o la realtà ti disperde e disintegra, o ti vincola e ti incatena fino a soffocarti. Ciascun personaggio può conoscere soltanto quella particella di realtà alla quale riesce a dare una forma, per cui ognuno potrà riconoscersi nella forma che si dà e mai nella forma che gli viene data. L'unica realtà valida e possibile è, dunque, quella che ciascun personaggio riesce a costruirsi, dando alle cose una forma che è valida solo per lui e che resterà in piedi fino a quando dureranno la perseveranza e la forza di volontà di continuare, oltre la costanza dei sentimenti: basta che queste caratteristiche vacillino un po', e subito le belle costruzioni cominciano a sgretolarsi. Dal punto di vista linguistico Pirandello distingue due stili: uno stile di cose ed uno stile di parole. Uno stile fatto di cose significa:

- rifiuto dei tradizionali modelli espressivi retorici,

- rifiuto del modello verista, secondo il quale dovevano essere i fatti a presentarsi da sé, utilizzando un linguaggio che doveva essere quello usato nella realtà dai protagonisti, a seconda della classe sociale cui appartenevano (anche con forme dialettali, proverbi, ecc.).

Per far raggiungere con maggiore immediatezza al lettore la comprensione di certe situazioni, Pirandello accentua nella descrizione i lati grotteschi di certi personaggi, che si impongono con la loro bruttezza quasi bestiale, come Matteo Falcone del romanzo L'esclusa. È un grottesco che richiama alla memoria una certa forma di verismo, con la differenza che mentre nel verismo si mettevano in evidenza gli aspetti esteriori, che avrebbero potuto essere migliori in presenza di una migliore condizione sociale, nella quale sparisce qualsiasi forma di bestialità, Pirandello mette in evidenza gli aspetti interiori e le tragiche conseguenze derivate dalle piccole cause. Proprio attraverso la parola i personaggi cercano di uscire dal doloroso isolamento nel quale sono costretti dall'impossibilità di capire e capirsi. Per questo il dialogo diventa la forma espressiva più importante, ponendo in secondo piano la forma descrittiva e rappresentativa. In molte novelle prevale una sorta di monologo del personaggio, che espone le sue idee con un linguaggio discorsivo che monopolizza l'attenzione generale, cercando di coinvolgere anche il pubblico, e quindi i lettori, ai quali si rivolge direttamente, senza, però, aprire con essi un vero dialogo. L'arte di Pirandello non rispecchia la 'realtà' così come comunemente è intesa, ma va alla ricerca delle piccole cause che generano conseguenze imprevedibili e sono troppo spesso ritenute insignificanti. Sono le piccole cause che fanno cadere le illusioni in cui culliamo le nostre certezze e fanno crollare le forme fittizie che ci siamo creati.