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TESTATA RIVISTA


    C. Di Agresti,  Scuola pubblica, scuola privata: annotazioni dal vissuto

     Il problema della parità scolastica ha molte sfaccettature. Su alcune in particolare si sono cumulate precomprensioni più o meno conscienti e preoccupazioni non infondate. L'impegno riformistico berlingueriano, con la messa in discussione di questioni nodali dell'intero sistema formativo ha, tra l'altro, provocato, anche sulla parità, un rigurgito ideologico, alimentato da posizioni estreme su opposti fronti. Queste brevi annotazioni richiamano soltanto qualche punto, nella speranza di contribuire ad un confronto non pregiudizialmente chiuso.

     1.  Il primo aspetto su cui riflettere è l'abituale utilizzo, quando si parla di parità scolastica, della definizione di scuola pubblica e scuola privata, aggettivazione, mi sembra, impropria e fonte di confusione. Se scuola pubblica sta a significare, per principio, scuola aperta a tutti coloro che desiderano fruirne, con funzione pubblica dichiarata, tale connotazione non può essere riservata esclusivamente alla scuola gestita (e finanziata) dallo Stato. Qualsiasi scuola, a cui lo Stato riconosce i requisiti per essere tale, merita il riconoscimento di "servizio pubblico". Sotto questo profilo mi sembra risulti ideologicamente viziata ogni volontà di etichettare come "privatistico" l'obiettivo formativo di una scuola soltanto perché rende manifesta a priori la propria progettualità educativa offerta alla libera scelta degli utenti. A meno che non si voglia rifiutare ogni principio di sussidiarietà e identificare "servizio pubblico" con gestione diretta da parte dello Stato. Ma questo vuol dire regime di monopolio che, a quanto mi risulta, non costituisce l'essenza di un autentico stato democratico, e in pratica non è rispettato in altri settori.

     2.  Un secondo aspetto, degno di sottolineatura, è l'esigenza di regole atte a vincolare l'assolvimento di precise funzioni del servizio scuola: esse riguardano tutte le scuole in quanto tali, gestite o non direttamente dallo Stato. Il dettato costituzionale, nel ben noto art. 33, faceva carico alla repubblica di emanare tali norme: "La Repubblica detta le norme generali sull'istruzione". Le norme non possono, come è ovvio, riguardare il controllo ideologico della scuola da parte dello Stato (di nessun tipo di scuola, statale o non che sia), ma riguardano i requisiti indispensabili perché una istituzione scolastica possa assolvere la funzione di promuovere la crescita umana, personale, sociale e culturale dei soggetti che la frequentano. In altre parole il controllo riguarda le condizioni oggettive necessarie, la rispondenza alle finalità proprie della scuola (dagli standard cognitivi alla prescrizione dei contenuti minimi richiesti, fino alla qualità e al livello di qualificazione professionale di quanti in essa operano). Le regole sono necessarie per fissare diritti e doveri: servono alla scuola non statale per evitare un privatismo selvaggio e il rischio dell'abuso per soli scopi utilitaristici, servono alla scuola dello Stato per rompere l'autoreferenzialità protetta e le pesantezze burocratiche che l'ingessano. Sotto tale profilo non é condivisibile una sorte di totale de-regulation, insistendo esclusivamente sul tasto della competitività (anche se una sana competitività non guasta). La scuola non può essere paragonata ad una qualsiasi impresa che misura efficienza ed efficacia quantificando il prodotto, ma è e deve rimanere spazio di crescita qualitativa per tutti e, in primo luogo, deve garantire il diritto alla formazione della collettività.

     3.  Rimanendo sul piano del concreto, una terza questione merita attenzione: il pluralismo. Nel dibattito sulla parità è consuetudine dare per scontato che scuola statale sempre e comunque vuol dire garanzia di pluralismo ideologico, opportunità di dialogo e confronto, mentre, in contrapposizione, scuola non statale sta a significare indottrinamento, chiusura culturale, confessionalismo ecc. Ma l'affermazione è veramente suffragata da dati esperienziali? Per chi vive e opera dentro la scuola l'assolutezza dell'equazione può risultare anche una etichettatura di comodo. E con ciò non si intende neppure affermare l'esatto contrario. Nessuno, tuttavia, può fondatamente negare la possibilità di trovare, a volte, più dogmatismo in una scuola statale di quanto non ve ne sia in molte scuole non statali. D'altra parte con quale strategie lo Stato è in grado di garantire il tanto sostenuto pluralismo della scuola statale se non quello del calcolo delle probabilità che operatori di varie appartenenze ideologiche possano capitare in una stessa istituzione? E non è lecito fare altrimenti. Di fronte all'eventuale monoculturalismo di una classe di scuola statale quale reale scelta ha la famiglia di optare per una scuola ritenuta più confacente alle proprie aspettative e più rispondente al proprio modo di valutare i suoi doveri educativi verso i figli? Come si rispettano i diritti della famiglia?

     4. Questi ultimi interrogativi sollecitano un ulteriore approfondimento relativo a questioni di principio e, soprattutto, a finalità di carattere specificamente pedagogico/educativo. Due sono i nodi da sciogliere: da una parte chi è legittimato a scegliere la scuola, dall'altro come valutare le esigenze della formazione/educazione dei soggetti in crescita. Su entrambi i punti vorrei esprimere una mia personale convinzione, maturata lungo anni di esperienza e di insegnamento e rafforzata nel contatto quotidiano con le nuove generazioni.

     Innanzitutto chi è legittimato a scegliere la scuola. Non certo lo Stato che ha il dovere di offrire una opportunità per assolvere determinati doveri (l'obbligo scolastico!) ma non a prescrivere dove assolverlo. Non certo il bambino che entra nelle materne, nelle elementari e, perché no, nelle secondarie, almeno fino a quando non è riconosciuto autonomo su altri piani per assolvere responsabilità civili, politiche ecc. Non mi sembra possano sussistere dubbi che, per gli anni della minore età, la responsabilità e il dovere dell'educazione spetta alla famiglia, in primis ai genitori. Si tratta di un diritto che comunque la Carta costituzionale sancisce all'art. 3: "E' dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche nati fuori del matrimonio". Non a caso, quando questi doveri non vengono assolti, ai genitori viene tolta la patria potestà. Dovere, dunque, ma anche diritto: in questo caso quello di poter scegliere, in maniera consapevole, di quali opportunità formative avvalersi perché ritenute più adeguate e rispondenti per assolvere nel migliore dei modi ai propri doveri educativi. Chi ha il diritto di limitare tale scelta? In nome di che cosa? Basta una diversa convinzione per imporre a coloro che intendono avvalersi di questa scelta la perdita di tale diritto? Non si tratta di una difesa monopolistica che và a tutto detrimento di una vera democrazia? Non è sufficiente garanzia un diritto puramente formale di avvalersi di offerte formative diverse, quando, in concreto non si mettono in posizione di parità le diverse offerte, e si costringe chi è interessato alla scelta a pagare due volte la formazione (forse a proposito conviene ricordare che la scuola statale è pagata anche dai cittadini che non se ne avvalgono e quindi allo Stato non viene chiesto gratuità di servizio ma soltanto il diritto di scelta di un servizio pagato). Il compito dello Stato è certificare la rispondenza della scuola alle funzioni sue proprie, negli ambiti di sua competenza, a garanzia della collettività.
     Il secondo punto entra direttamente nel merito circa il modo di concepire la funzione educativa, i processi attuativi e le finalità proprie dell'agire specifico. E' questione delicata, e la diversità di vedute é cosa legittima e necessaria. La proposta è tutta personale e per questo non presumo il consenso di quanti non la condividono, ma è lecito chiedere il rispetto come le regole di una vera democrazia esigono.
     L'interrogativo da cui parto è semplice: per contribuire, nell'attuale temperie culturale, al formarsi di personalità autonome e critiche può la scuola, e noi adulti che in essa operiamo, limitarsi a offrire, come al supermercato, la merce delle molte opinioni più o meno accreditate da garanzie di scientificità (leggasi pluralismo!), lasciando poi alla responsabilità del soggetto in crescita di vagliare l'offerta e di costruirsi un sapere personalmente giustificato e motivato? Si può pretendere l'esercizio di capacità di scelta critica da soggetti che ancora devono acquisire gli strumenti base per l'esercizio della criticità? E per acquisire tali strumenti bastano le visioni e prospettive diverse, pur necessarie per il confronto? Non si rischia di creare un atteggiamento mentale di assoluto relativismo in assenza di principi valutativi e quadri valoriali di riferimento? Forse è utile affrontare il problema tenendo presente due elementi.
     Il primo: nella realtà di globalizzazione della comunicazione e di moltiplicazione delle autostrade dell'informazione si può ancora considerare la scuola l'unica agenzia formativa preposta alla trasmissione dei contenuti scientifico-culturali? Il policentrismo formativo diventa sempre più realtà di fatto con cui qualsiasi scuola è chiamata a confrontarsi per ridefinire la specificità di funzione in un contesto di profondo mutamento. Non vedo come la scuola, anche quella definita "di tendenza", possa esercitare una qualche forma di chiusura o di rifiuto del confronto con le tante prospettive che altre fonti di conoscenza veicolano nei modi e nei tempi piu diversi.
     Il secondo: altro discorso, invece, per l'esigenza di unificazione del conoscere intesa come sintesi personale. Questa sintesi deve realizzarsi nel soggetto ed è postulata dalla stessa formazione. Se non si vuole devitalizzare il processo di apprendimento e di crescita della carica formativa e motivazionale è necessario postulare sia criteri valutativi, indipendentemente dalla filosofia che li fonda, sia la messa alla prova esistenziale. Per queste ragioni non riesco a pensare né ad una scuola avaloriale, né ad un sapere neutrale, implicanti una specie di voluta astinenza da una opzione forte, e che si garantisca nello stesso tempo la formazine di un abito critico. La criticità si costruisce mediante principi valutativi e questi, a loro volta, necessitano di una loro giustificazione. Il problema, perciò, non è l'assenza di presupposti, ma la rigidità del loro uso che non apre al nuovo, a costanti revisioni del pensare e dell'agire rispondenti al graduale processo di crescita.
     Apertura non significa rimandare all'infinito il compito di esercitarsi nel dare senso al vivere, nel cercare la giusta relazione nella convivenza piccola o grande, e lasciare abbandonati a se stessi chi non è ancora maturo per scegliere autonomamente. Il processo di unificazione ha bisogno di un'idea forte, di criteri di scelta, di quadro di valori come punti di riferimento. Con la raggiunta maturità, quadri e criteri possono anche mutare, ma rimane acquisita l'abilità all'esercizio della valutazione critica.
     Il processo di unificazione è delicato e il rischio di un utilizzo improprio è grande; pericoloso è acquietare dando sicurezze attraverso una trasmissione aproblematica di contenuti. Sono rischi che corre qualsiasi scuola, al di là della gestione e delle tendenze: contro di essi occorre lottare con tutte le forze.

 

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