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TESTATA RIVISTA


    C. Xodo Cegolon,  Scuola pubblica/Scuola privata: alcune riflessioni

     In tema della parità scolastica, tre sono le considerazioni che mi sento di svolgere.
     Primo: esigenza di contestualizzazione del problema; secondo: rapporto parità-autonomia; terzo: la scuola come sistema distributivo del "bene educazione".
     La questione appare nell'insieme mal posta e, per questo, aperta all'equivoco. Il limite più evidente, come si cercherà di spiegare più appresso, di tante prese di posizioni – pedagogiche e non – coincide con un errore di impostazione del problema, sintomo della debolezza epistemologica delle scienze dell'educazione e dell'inevitabile semplificazione cui sono sottoposte le questioni educative, quando le regole del gioco vengono dettate dai non specialisti. L'errore in questione deriva da una duplice omissione di contestualizzazione. È possibile, non dico risolvere, ma identificare la questione della parità oggi prescindendo dal tentativo di inscriverla all'interno di quella più generale riguardante la trasformazione morfologia e funzionale della scuola italiana in questo momento? È possibile ancora trattare di nuovi assetti istituzionali scolastici escludendo il disegno di riforma istituzionale dello stato democratico, sotto la spinta di ragioni interne – passaggio dalla cosiddetta "prima" alla "seconda" repubblica – favorite da motivazioni esterne – l'Europa e la "globalizzazione dell'economia"?
     Se, come si conviene, l'educazione è un fenomeno culturale e se la scuola è un'istituzione sociale, l'una e l'altra non possono essere adeguatamente comprese al di fuori di una, necessaria, visione olistica ed interpretazione ermeneutica. Isolare simili fenomeni significa strappare il reticolo di inter-relazioni che fonda la loro intelliggibilità e sensatezza. Insomma, il problema della parità scuola pubblica-scuola privata va ben al di là di vecchie antinomie ottocentesche, del tipo laicità-clericalismo, Stato-Chiesa, liberismo-confessionalismo. Anche sul versante educativo-scolastico bisogna fare qualche sforzo in più per aggiornare la questione del regime pubblico-privato, così come è accaduto per altri ambiti della vita sociale, di interesse pubblico (sanità, informazione, finanziamento della politica ecc). Se da una parte i pedagogisti devono dare prova di una maggior capacità di elaborazione teorica, dall'altra i responsabili governativi, se aspirano alla loro credibilità in materia scolastica, devono accettare la sfida, anche su un problema specifico come la parità, per tentare impostazioni di ampio respiro, traducibili in un progetto politico, saldamente ancorato alla realtà del Paese, con chiare previsione delle conseguenze anche economiche nel quadro di una doverosa informazione pubblica nonché dell'attesa trasparenza decisionale e gestionale.
     Poiché questi sintetici accenni chiamano in causa l'elemento di maggior spicco della trasformazione scolastica in atto (cioè, l'autonomia), appare evidente che con essi si vuole sottolineare la formulazione nuova del tema parità in rapporto all'autonomia medesima. Questo è infatti, a mio parere, la novità sul tappeto, che respinge una sua liquidazione facendo ricorso all'arma spuntata del vecchio formulario che ci ha accompagnato nel recente passato.
     E vengo al secondo punto, che mi limito solo a toccare senza i pur meritevoli approfondimenti. Il significato politico del termine autonomia, che si impone nella sua più ampia portata solo se si tiene a mente la matrice etica (Kant insegna), mette in campo un soggetto nuovo, la società civile, libera dalla pastoie della tutela statale. Si tratta non solo di una conquista della democrazia, di una conseguenza cioè del libero confronto delle idee e del pluralismo; nel caso italiano essa è anche l'esito di un processo di maturazione sociale più lento che in altri Paesi. Da noi infatti, a differenza che altrove, la realtà nazionale non è stata premessa ma conseguenza dello Stato, nel senso precisamente che prima è stata realizzata un'entità politico-amministrativa e, col tempo, l'unità socio-culturale del Paese, non senza difficoltà e, cosa di grande momento, eleggendo la scuola a veicolo privilegiato del progetto politico. Di qui, il carattere particolare, da noi, del rapporto Stato-società civile; di qui, anche, quello non meno singolare, tra Stato, scuola e società civile. Orbene, il cambiamento attuale, l'autonomia, investe in egual misura la scuola e la società, perché quest'ultima nel processo di trasformazione esige una scuola diversa. Così, via via che si emancipa dal paternalismo statale, la società dà prova di vivacità ed orientamento propri. Ciò spiega anche l'esigenza di una nuova mediazione tra Stato e società, rappresentata oggi non più dai partiti politici, ma dai "sondaggi", le relazioni periodiche sullo stato della società (Censis, Istat ecc). In una concezione liberal-democratica più matura cessa l'identificazione della Società con lo Stato; vien meno l'equivoco dell'unificazione sociale come omologazione; si scredita l'ideale della società amministrata come un tutto armonioso, sotto le ali protettive dello Stato.
     Prende vigore invece il principio del pluralismo, portatore – ma sano – del conflitto, riabilitato come fonte di vitalità democratica. Da cui, la sfida della società odierna, la concezione di una solidarietà che si rafforza nel momento in cui perde la sua linearità, una dimensione dell'integrazione non più garantita ab imis, ma conquistata, appunto, nella quotidianità del conflitto. Ma una società che recupera appieno la propria autonomia e ruolo attivo nei confronti dello Stato, finisce per assumere un ruolo diverso anche in rapporto alla scuola. Se è vero che quest'ultima è una forma di autorappresentazione sociale, si capisce anche la dissociazione odierna tra la società e la sua scuola. Ci si chiede: è possibile, senza infingimenti, che una società pluralistica possa sentirsi garantita nelle proprie proiezioni educative da un'unica formula scolastica, se non al prezzo di un astensionismo axiologico, di sostanziale rinuncia educativa? Se, come ha sostenuto il pedagogista Bertolini nel dibattito aperto da Icaro, è vero che, in termini di parità, la preoccupazione pedagogica deve prevalere su ogni altra, allora non può non imporsi con forza non tanto nei riguardi delle scuole cattoliche, che si preoccupano di garantire delle condizioni educative, ma nei confronti di quella laica, statale, che equivoca educazione con istruzione e neutralismo scolastico.
     D'altra parte, in una società – sono qui tributaria delle definizioni a C. Collicelli, ricercatrice del Censis - "densa" e " poliarchica" come lo è la nostra, anche lo Stato appare inevitabilmente impegnato a ricercare il fondamento di una nuova legittimità. Nella sua azione di mediazione super partes esso non può abiurare la funzione primaria cui è preposto, cioè garantire in prima istanza la giustizia.
     Senza pretendere di inoltrarci in questioni troppo specialistiche, l'idea che si fa largo è quella di uno Stato la cui funzione prevalente è farsi arbitro delle contese sui beni che la società produce. Nel nostro immaginario post-moderno l'idea di Stato coincide con quella di un'organizzazione istituzionale chiamata ad interpretare, assecondare, orientare e dirigere la vita sociale, una sorta di postazione esterna di osservatorio sul presente e sul futuro della società, un occhio puntato il cui campo visivo si estende oggi inevitabilmente ad un crescente internazionalismo, che è sotto gli occhi di tutti. Ma sia che si tratti di istituzioni nazionali o transazionali, un punto ormai è acquisito, quello del servizio essenzialmente distributivo che esso, lo Stato, è invitato a rendere alla Società.
     Il terzo punto riguarda la scuola come sistema distributivo del "bene" educazione.
     Possono portare luce a questo proposito le tesi di J. Rawls, riprese con qualche aggiustamento da M. Walzer: due posizioni emblematiche della riflessione istituzionale odierna, in cui può riconoscersi pienamente anche l'odierno orientamento sulla scuola. Da una parte, infatti, alla maniera di Rawls si invoca un'unica misura razionalizzatrice, permeata di illuminismo con venature giacobine, all'insegna di una sostanziale intransigenza (vedi l'articolo apparso sull'Unità dell'8 febbraio a cura del ministro Berlinguer); dall'altra si avanza l'esigenza di operare delle distinzioni, adottare una geometria variabile nella distribuzione conformemente alla diversità dei beni sociali. Appunto, i beni che una società produce non sono della stessa natura e richiedono perciò stesso misure e criteri appropriati. Insomma, la Società civile, inglobante nel proprio seno una varietà di posizioni ideali; lo Stato che la deve tutelare e garantire nelle sue libertà; la Scuola in quanto istituzione che si rapporta ad entrambe: questa la triade in gioco quando si parla di parità. Ed allora, a ragionare nei termini di Walzer, la scuola potrebbe essere considerata l'istituzione preposta alla distribuzione di quel bene particolare che è appunto l'educazione. Questo è il punto: se la società produce educazione e se, nelle parole dell'ultimo Bruner, la cultura dell'educazione (titolo del volume) non è da noi una cultura uniforme ma pluralista, affinché questo bene sia distribuito con giustizia si deve prospettare una forma istituzionale che salvaguardi le diverse intenzionalità educative. In tal luce la "parità" non sarà, come da qualcuno è stato detto, un "ritorno", ma l'indotto di profondi cambiamenti socio-politico-economico-produttivi che esigono una riparametrazione radicale dell'assetto istituzionale, nel quale rientra tra i primi anche quello scolastico.

 

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