Epoca medievale

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Il forte senso di insicurezza, di precarietà e di paura, che pervade gran parte di questa fase storica, crea un atteggiamento nei confronti del cibo molto particolare. E, in effetti, esso diviene un vero e proprio status symbol: chi mangia ha potere, e mangiare per chi è affamato significa compiere un’azione esagerata, vorace, quasi violenta. Le invasioni dei “barbari” con il conseguente abbandono dei centri urbani e delle fiorenti villae romane, contribuiscono al formarsi di una nuova cultura, nata dalla contaminazione tra civiltà molto diverse: quella greco-romana che gravita sul Mediterraneo e si fonda su di un’alimentazione cerealicola, sulla vite e l’ulivo, un abbondante utilizzo di formaggi e di carni soprattutto ovine e l’altra, quella delle popolazioni germaniche, seminomadi, legate all’attività silvo-pastorale e quindi alla caccia e alla pesca, con uso di carne soprattutto di maiale, meno interessate alla cerealicoltura, ad eccezione della birra che tende a sostituirsi al vino. Nei centri monastici, invece, persevera l’abitudine all’allevamento di pesci, l’unico cibo che non turba l’astinenza quaresimale, così come l’ortocoltura.
Il cibo dei contadini
È dopo il Mille che la ricerca del cibo diviene più difficile: l’aumento considerevole di popolazione, la diminuzione delle aree da mettere a coltura, la sempre più invasiva presenza sul territorio delle bannalità signorili, come riserve di pascolo, di caccia e di pesca, rende la vita dura ai contadini. La carne scarseggia, diviene sempre più pregiata, sinonimo di abbondanza e di prosperità. I pochi animali domestici sono considerati bestie da fatica, essenziali per svolgere il gravoso lavoro nei campi. Aumenta quindi il consumo di cereali, dalla segale al grano saraceno: il termine companatico, che si diffonde proprio in questo periodo, sta ad indicare il condimento, ciò che accompagna il pasto basato ormai quasi esclusivamente sul pane.
Esso è presente ad ogni pasto, di tutte le varietà e colori: d’orzo, di spelta, di segale, di castagne. Spesso, la tonalità differente indica l’appartenenza ad una precisa fascia sociale, o ad una certa area geografica. Nei centri urbani, invece, si diffonde l’uso del pane di grano duro, più chiaro di quello mangiato nelle campagne. Il vino, secondo la tradizione greco-romana, rimane un alimento diffuso anche tra le classi più povere: è nutriente, rende più allegri, si può usare come anestetico, tutti ottimi motivi perché anche i ceti privilegiati ne favoriscano il consumo.
La tavola di chi vive dei prodotti della terra non può non prevedere la presenza delle verdure dell’orto, dal cavolo alle zucchine, dalle cipolle agli spinaci. Piatti consueti sono, infatti, le zuppe di verdure di stagione, spesso mescolate ai legumi: ceci, fave, lenticchie, facili da essiccare e ricche di proteine, accompagnano frequentemente i pasti sostituendosi alla carne. Essa, in prevalenza bianca, è destinata ai giorni di festa: polli, galline, qualche coniglio rappresentano l’unica variante più sostanziosa per la classe dei lavoratori della terra. Le erbe aromatiche, tipiche dell’area mediterranea, dal timo al rosmarino, dalla nepitella al basilico, insieme al poco grasso e all’olio arricchiscono queste semplici pietanze, che stanno alla base dell’alimentazione contadina.
Il cibo dei potenti
Una delle rappresentazioni tipiche della società signorile medievale è il momento del banchetto. Sulla tavola imbandita, diverse qualità di carni arrostite stanno ad indicare il cibo preferito dal ceto nobiliare, dai potenti, che giudicano una debolezza l’astensione volontaria, segno di umiliazione e di perdita del proprio rango: nei documenti dell’epoca, essa equivale all’obbligo di deporre le armi e quindi a una totale perdita d’identità. Del resto, lo stesso Carlo Magno, stando al suo biografo Eginardo, è mangiatore quotidiano di arrosti, nonostante in tarda età soffra di gotta e i medici gli suggeriscano di passare a piatti più leggeri.
Attraverso i libri di contabilità del tempo che ci sono pervenuti, siamo in grado di mettere a fuoco un mondo di aristocratici abituato a bere abitualmente vino, ad accompagnare le carni saporite bianche - capponi, oche, galline, polli - e rosse - manzo, maiale - ma in special modo la selvaggina e gli agnelli con pane di grano, uova e formaggi. Le verdure e i legumi, sconsigliati dai medici del tempo agli stomaci raffinati in quanto poco digeribili, hanno un ruolo marginale sulle tavole dei ricchi, così come la frutta.
Il miele, unico dolcificante conosciuto - lo zucchero di provenienza araba non è ancora diffuso - è invece consumato in abbondanza. La modalità di cottura più diffusa è la bollitura, che utilizza molte spezie provenienti dalle Indie come il pepe, il coriandolo, la cannella, la noce moscata, i chiodi di garofano, ormai difficili da trovare e assai costose, che insaporiscono i cibi e le bevande, ritardano la putrefazione e addolciscono i sapori aciduli. Anche le erbe aromatiche sono molto in uso: in questo modo la carne, soprattutto selvaggina, dai cervi ai caprioli, dalle anatre ai fagiani, diviene meno dura e acquista maggiore sapore, anche perché accompagnata spesso dal lardo. Gli stessi arrosti sono prima bolliti, e solo in un secondo tempo vengono fatti a pezzi e infilzati nello spiedo.
Il cibo dei monaci
La carne, bandita dunque inizialmente dalle mense e sostituita da pesce, legumi, uova e formaggi, tende a ricomparire a partire dall’XI secolo, anche perché più consistente comincia ad essere la presenza del ceto aristocratico tra i religiosi. Nei giorni di festa, che non sono pochi nel calendario liturgico, la carne, soprattutto di maiale, è presente nei pasti dei monaci cucinata in maniera differente. Compare anche nelle dispense, conservata sotto sale, essiccata o insaccata. Mangiare coincide con un momento collettivo, e i monaci si ritrovano in refettorio una volta nei giorni feriali e due in quelli festivi.
Il pranzo, che coincide con il mezzogiorno, prevede due piatti caldi: il potagium di legumi e la minestra di verdura, e un terzo piatto, il generale o la pietanza, serviti a giorni alterni durante la settimana, che porta in tavola uova, formaggi, verdure. Il vino e il pane bianco non mancano mai. Nel periodo estivo i pasti sono due, poiché aumentano le ore di veglia e di lavoro. La cena, piuttosto frugale, si basa su ciò che resta del pranzo insieme ad un po' di frutta di stagione.
Dopo il Mille, questo regime così severo tende poco alla volta a divenire più elastico: si moltiplicano le cose da fare, le occupazioni da svolgere, soprattutto di tipo amministrativo. I patrimoni da gestire si accrescono, in seguito agli imponenti lasciti testamentari, ai possedimenti che si espandono e che allontanano il monaco dalla dimensione frugale e semplice cui è abituato, dettata dalla regola del proprio ordine. Così il momento del pasto e il regime alimentare si modificano: la semplicità delle origini è superata, per lasciare spazio all’abbondanza e alla varietà dei cibi.
Il potere del sale
Il sale, elemento antichissimo e prezioso, incontra nel periodo medievale la sua massima fortuna, in una fase in cui il cibo scarseggia e il gusto ha dovuto adattarsi a sapori essenziali e non sempre gradevoli. “Prima di ogni altro cibo a tavola si metta il sale, che alletta la gola e dà gusto al mangiare” è, infatti, quello che consigliano i medici della Scuola di Salerno nel Duecento, individuando nel prezioso alimento qualità benefiche e virtuose. Il sale compare, infatti, in tutti i ricettari del tempo: viene messo nel pane, nel vino per conservarlo meglio e per schiarirlo.
L’uso di mettere il sale nelle diverse bevande ha origine remota, e già in Grecia e nell’antica Roma è pratica diffusa: “I sali aromatizzati servono alla digestione e a sciogliere il ventre; non permettono che si sviluppino mali di vario genere, e peste e febbri di ogni specie. Inoltre, sono più buoni di quanto ci si aspetti” raccomanda Apicio nel suo libro di cucina. Una delle prerogative fondamentale del sale è certamente quella di permettere la conservazione dei cibi, prosciugandone l’acqua e distruggendone i batteri. Il sistema, di origini antichissime, in una fase difficile come quella medievale diviene davvero vitale, permettendo di mettere via scorte alimentari e garantendo la sopravvivenza di intere popolazioni nei periodi di penuria alimentare.
Ma quali sono i prodotti più diffusi sottoposti a “salificazione” nel Medioevo? In primo luogo la carne di maiale, consumata essenzialmente dai ceti inferiori sia nelle campagne sia nei centri urbani; poi il pesce, dalle trote alle anguille, per arrivare nei secoli XIV e XV alle aringhe e alle sardine provenienti dai mari del Nord. Sotto sale si mettono anche uova, verdure, olive, e il sale si utilizza per conservare meglio il formaggio, soprattutto di capra.
Infine, il sale è utilizzato a scopo igienico, dietetico e farmacologico. La sua natura “calda” e “secca”, secondo la classificazione della medicina classica, lo rendono adatto come purgante, come emetico e disinfettante nelle piaghe e nelle infiammazioni. Le virtù straordinarie del sale non si fermano certo qui: esso emerge dalla tradizione ebraica e cristiana come simbolo di purezza, di incorruttibilità. Ecco perché lo ritroviamo anche nel rito del battesimo, citato in tante fonti dell’epoca, per purificare il credente e allontanare il maligno, al momento dell’ingresso alla nuova dimensione spirituale.

E’ noto che le spezie sono state al centro di grandi interessi, hanno fatto la fortuna di molti e sono state alla base di guerre e di contese. Proprio la ricerca di nuove rotte commerciali per le Indie spingeranno Cristoforo Colombo a superare le Colonne d’Ercole, a navigare verso ovest, ad affrontare l’oceano sconfinato  e... l’ignoto.
Scoprirà l’America e riporterà in patria prodotti nuovi che arricchiranno le nostre mense.
Verrà l’età moderna...

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